Dopo
quasi cinque anni di attività come assistente alla comunicazione posso
dire di avere una discreta panoramica della situazione
milanese-lombarda, oltre che qualche elemento di quelle di altre
regioni.
Lavorando
ed incontrando le mie colleghe ho iniziato a farmi delle domande,
alle quali pensavo sarebbe bastata la passione per rispondere. Ma
oggi mi rendo conto che la passione non basta più, ci vogliono delle
risposte serie.
Sono
arrivata a quest'attività per caso, come molte colleghe, trascinata
dall'entusiasmo per la Lingua dei Segni. Quando ho iniziato ho
accettato via via che le scoprivo, le condizioni di lavoro: la
mancanza di un contratto, la paga miserrima, la mancanza di
considerazione da parte del corpo insegnante con tutte le
conseguenze.
Nel
frattempo, oltre ad affrontare i miei problemi, ascoltavo quelli
delle colleghe: costrette a scrivere il PEI per i ragazzi che
seguivano (compito questo dell'insegnante di sostegno), spedite fuori
dalla classe perchè gli insegnanti curricolari non volevano la
presenza dell'allievo disabile, prese tra famiglia e scuola,
malpagate e (a volte) non pagate, grazie al sistema della Provincia
di Milano. A tutto questo si aggiungeva spesso la sensazione
d'impotenza per la frustrazione per l'atteggiamento di alcuni
insegnanti, incapaci di comprendere le difficoltà cognitive di un
ragazzo con disabilità sensoriale che non sono sovrapponibili a
quelle derivanti da altre disabilità (mi riferisco in
particolarmente alla sordità -che conosco meglio- ma anche la cecità
credo ponga problematiche particolarissime non assimilabili ad
altre).
Ma
ero fiduciosa che le cose sarebbero migliorate, che sarebbe bastata
la passione a mettere in moto la macchina del merito ed il buonsenso
avrebbe prevalso.
Mentre
lavoravo cercavo di aggiornarmi: ho seguito corsi, alcuni seri altri
meno, investendo denaro e anche molto tempo libero che ho sottratto
alla famiglia; ho seguito dibattiti e sentito spesso teorizzare il
ruolo dell'assistente alla comunicazione (un ponte tra sordi e
udenti, una coordinazione tra famiglia, riabilitatori, scuola e
ragazzo sordo) per scoprire poi che la realtà è ben diversa dalla
teoria e non c'è un ruolo definito, il modo in cui sarai considerata
dipende dalla fortuna, non dalla tua professionalità.
Poi
quest'anno, finalmente, dopo anni di falsi allarmi, sembrava che
fosse deciso un grande cambiamento, il passaggio di competenze per i
disabili sensoriali dalla Provincia al Comune di Milano. Un passaggio
che noi tutte assistenti speravamo avrebbe portato alla
contrattualizzazione e quindi al riconoscimento di questa figura che
-volenti o nolenti- allo stato attuale è un supporto necessario agli
studenti con disabilità sensoriale.
Paura,
speranza, e poi la delusione. Nessun passaggio, nessuna seria presa
in carico da parte del Comune, della Provincia o di un'ente
(cooperativa) incaricato. Invece, un contributo fisso erogato alle
famiglie, che si devono preoccupare di regolarizzare l'operatrice
rivolgendosi loro stesse ad una cooperativa, alla scuola o a un caaf.
Non
si parla dell'istituzione di un albo, non si parla di valorizzare la
professionalità di tante assistenti che da anni fanno il loro dovere
in condizioni lavorative da barzelletta.
La
feroce ironia di tutto questo è poi che molte colleghe si vedono
costrette
ad informarsi presso i caaf o i commercialisti per sapere come essere
regolarizzate, aggiungendo un altro compito ( ed un'altra spesa),
chiaramente non di loro competenza, ai tanti già svolti più o meno
dovuti.
A
questo punto le domande che mi sono fatta diventano imprescindibili
per continuare a fare questo lavoro, se vogliamo ancora chiamarlo
così:
Che
lavoro è quello che richiede per forza una preparazione
(educativa, nella LIS...) per la quale è il lavoratore che paga e
poi il suo compenso è costituito da un contributo (che come tale
andrebbe -ma non è- integrato dalla famiglia) e non esiste un
salario minimo?
Che
lavoro è quello in cui non sono chiari i compiti e ti puoi trovare
a fare qualunque
cosa, che sia tua competenza o meno, in virtù di una presunta
responsabilità del ragazzo disabile che ti viene affidato in tutto
e per tutto?
Che
futuro c'è per un lavoro che non è di fatto riconosciuto, in cui
non contano anzianità e titolo di studio e per il quale non esiste
possibilità di miglioramento, di aggiornamento serio e strutturato
e di conseguenza di carriera? Un lavoro che si gioca sul filo di
tempi strettissimi, con contratti (quando ci sono) rinnovati pochi
giorni prima dell'inizio delle scuole e spesso lascia
nell'incertezza non solo le operatrici, ma le stesse famiglie che
non hanno all'inizio di settembre ancora un'assistente per loro
figlio?
Che
futuro c'è per un lavoro che per tutti i motivi di cui sopra
rischia di perdere ( e di fatto già perde) continuamente gli
operatori più qualificati e abili che di fronte alle condizioni a
cui sono sottoposti preferiscono darsi ad altre attività,
riconosciute e meglio e regolarmente retribuite?
Pensiamo
poi al ragazzo sordo, che per primo subisce le conseguenze di questa
situazione: fino ad oggi si è fatta leva sull'inevitabile senso di
responsabilità dell'assistente nei confronti di chi le è affidato,
ed io e tantissime colleghe abbiamo resistito a situazioni
terrificanti e portato a termine il nostro compito tra grandi
difficoltà, in nome di questa responsabilità. Ma non può andare
avanti così per sempre. Se ci viene offerta una possibilità
migliore, perchè dovremmo rifiutare? E' una legge del mercato del
lavoro, che però può avere ricadute tutt'altro che indolori. E
nonostante tutto, le assistenti alla comunicazione sono al momento
l'unica soluzione in un sistema scolastico che non ha completato (sia
strutturalmente che emotivamente) l'integrazione dei ragazzi
disabili.
Insomma,
l'assistente alla comunicazione può anche scomparire, ma chi si
assumerà le responsabilità educative che ora ricadono su di lei?
Se
infine le istituzioni devono fare la loro parte, anche noi assistenti
dobbiamo diventare consapevoli del nostro ruolo e della nostra
professionalità, di quanto vale la nostra preparazione ed
esperienza, ed essere disposte a metterci in gioco per chiedere (ed
ottenere!) quanto ci spetta. Altrimenti, non c'è futuro.